GORELLI: «IL VINO è EDONISTICO, E ANCHE UN OTTIMO INVESTIMENTO»

«Il mondo del vino è il più bello che ci sia. È edonistico e depositario di grande cultura, ben oltre il calice». Gabriele Gorelli è il primo Master of Wine italiano – il riconoscimento più prestigioso al mondo per i professionisti dell’enologia – ed è tutto merito dei vigneti di famiglia, nel piccolo comune senese di Montalcino, dove da bambino correva tra i filari dei vigneti. Suo nonno era un piccolo produttore di Brunello, suo zio un consulente vitivinicolo: «La mia famiglia faceva il vino in maniera hobbistica ma ambiziosa, lo imbottigliava ed esportava anche oltreoceano, ma non c’erano le possibilità di raccontare bene quel vino. Io ero alle scuole medie e decisi che sarebbe stata la mia strada», racconta a Esquire Italia. A diciott’anni, Gorelli avrebbe aperto la partita IVA ed era il più giovane del suo commercialista, che per l’occasione stappò una bottiglia. Al liceo, avrebbe studiato lingue «perché sapevo mi sarebbero state utili, qualunque cosa avessi fatto», quindi Scienze della comunicazione e «una decisione fatta col cuore». Dedicarsi full time al vino. Mi risponde al cellulare mentre è in viaggio, per lavoro, viaggio verso un gioiello dell’architettura medievale gotica.

Prima domanda, ovvia: dove stai andando?

Sto andando agli Hospices de Beaune, in Borgogna. Qui c’è l’asta di beneficenza più prestigiosa del mondo. È un antico ospedale che, diciamo, ha fatto fortuna coi lasciti dei fedeli e dall’Ottocento organizza delle aste. Tutti gli anni, la terza domenica di novembre, si assaggia una cinquantina di vini direttamente dalla barrique, che poi vengono contesi dai buyer di tutto il mondo, privati, anche collezionisti collegati da remoto.

Come ti fa sentire essere il primo Masters of Wine d’Italia?

Un primato è sempre una notizia. Credo però che essere “primo” sia un merito quantitativo, io vorrei essere ricordato come “primo di una serie”. Ecco, un apripista. Dal 2023 c’è un altro italiano Masters of Wine, Andrea Lonardi, nel 2024 potrebbe essercene un altro, Pietro Russo.

Per diventare Master of Wine, hai sostenuto un esame durissimo: assaggiare trentasei vini a gruppi di dodici per volta, e rispondere a cinque prove scritte con una quarantina di domande.

Da studente, credevo che il percorso fosse coronato dal superamento dell’esame, che dura quattro giorni, otto ore al giorno. Quando ho ottenuto il titolo, mi sono reso conto di essere costantemente sotto esame. Secondo me, chiunque dovrebbe staccarsi da quel mondo del vino poetico, a volte verboso e ambiguo, e avere una conoscenza del vino più fluida e immediata. Al Masters of Wine danno per scontato che tu abbia delle conoscenze, e infatti testano il pensiero critico. Chiunque, consumatore o appassionato, non dovrebbe dare per buono quel che gli viene detto sul vino.

Su Esquire Italia, abbiamo redatto una guida su come investire in vino. Avresti dei consigli da condividere?

Sicuramente, il vino di qualità – quello che scarseggia sul mercato e ha la reputazione di migliorare invecchiando – si è dimostrato un bene rifugio importante, al riparo dei picchi in negativo e in positivo che altri mercati hanno registrato, penso alla borsa. Oggi entra in gioco la speculazione, ma puoi investire nel vino come in altri pleasure asset – orologi, arte, gioielli, auto d’epoca – senza cercare un ritorno economico bensì “sposando” quello che certi vini rappresentano per te. Credo ci siano un mercato di speculazione e un mercato di affinità, specie in Italia: i prezzi di alcune etichette anche molto importanti non sono esattamente esplosi come è accaduto coi vini francesi, o della Napa Valley.

Quindi, come suggerisci di investire in vino?

Livex è una specie di stock market del vino, una piattaforma dove i professionisti effettuano la compravendita e la valutazione delle etichette. Ti dico che c'è un produttore italiano, i Marchesi Antinori, che – col suo Tignanello – è al primo posto tra i vini italiani, ma anche al secondo, al terzo e al quarto posto. Se non erro, quattro dei primi cinque posti sono occupati da diverse annate del loro Tignanello. Ecco, tu prova a immaginare quanto quest’etichetta sia oltre rispetto al resto del vino italiano di qualità.

E all’estero? Che dire dei vini dal mondo, penso al Cile, al Sudafrica e alla Scandinavia?

Farei una distinzione. Oggi il Sudafrica ha una grande potenzialità su pochi produttori, ma buonissimi. Mentre invece i Nordics, quindi i vini resistenti, ancora non offrono una qualità né una cultura tale da creare il fenomeno e vedere un ritorno economico, o gustativo, nel breve periodo.

Nel 2004, hai fondato un’agenzia dedicata al design del vino. Ci sono dei trend significativi che condivideresti con noi?

Questo è un periodo che chiamo “la mia vita precedente”, siccome la mia esperienza in pubblicità pura si è conclusa. Non sono più un designer del vino, ma mi piace immaginarmi come un wine tailor, qualcuno che cura il valore del vino dentro il calice e fuori. Mi spiego. Fuori dal mondo del vino, tutto succede velocemente: il packaging si fa innovativo, il consumatore meno tradizionalista. Sul vino, invece, il consumatore cerca di limitare il rischio e si affida a qualcosa che gli pare rassicurante, in una bottiglia in vetro, col tappo di sughero. Negli Stati Uniti, per esempio, vanno molto forti le bottiglie in alluminio, magari con etichette un po’ hipster, volutamente trascurate. Presso alcuni consumatori, magari i giovani, hanno un appeal.

A proposito di giovani, che consigli suggeriresti a chi voglia seguire le tue orme?

Tanti giovani studiano business, e poi si specializzano sul vino. È corretto, per anni il vino è stato lasciato sul mercato a sé stesso, ma investirei sulla cultura in senso più ampio. Se domani dovessi iscrivermi di nuovo all’università, studierei probabilmente letteratura, o storia dell’arte, e poi mi specializzerei sul vino. Senza troppa enfasi sui numeri.

Al di fuori del vino, viaggi tantissimo e pratichi lo yoga.

Dopo anni in cui la mia fidanzata mi spingeva a provarlo, ho trovato nello yoga un rifugio, la capacità di poter superare lo stress e l’inquietudine con un esercizio fisico, ma soprattutto mentale. Sono un runner, lo yoga e la corsa sono le discipline più facili da portarti in viaggio. La settimana scorsa ho corso la maratona di New York e sono stato spesso in Asia negli ultimi mesi, post Covid-19: Singapore, le Coree, il Giappone, Hong Kong. E poi ho preso la patente nautica.

Nell’anno 2022, il nostro paese è stato il massimo produttore di vino, oltre 49 milioni di ettolitri. Per quale motivo allora, secondo te, il Masters of Wine è un’istituzione britannica? Non trovi paradossale che non italiano?

Il punto è che la Gran Bretagna non ha mai prodotto, neanche lontanamente, il quantitativo di vino che consumava. Ha sempre avuto grande esigenza di approvvigionarsi di vino, specie durante l’Impero. Quando è nata la Wine Society, che poi ha scaturito il Masters of Wine, volevano formare persone capaci dal punto di vista sensoriale-olfattivo, che sapessero cosa volesse il mercato e consce di eventuali requirements legali. Ecco, il Regno Unito ha il Masters of Wine perché ne aveva bisogno. L’Italia, in quanto produttore diffuso di vino – ma non più il primo: quest’anno non sarà così, per motivi stagionali – ha una grande capacità di fare vino in ognuna delle sue 107 province, perché lì si consuma il vino che si produce. Non era richiesta una certificazione globale, come nel caso del Regno Unito che il vino non lo fa.

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