L'ARTE DELLA FERMENTAZIONE, A SCUOLA DA CARLO NESLER

Il cantamaggio, o Maggio drammatico, è una mise-en-scene che affonda le proprie radici nella tradizione altomedievale: una forma di teatro, spesso a sfondo religioso, in cui la partecipazione è ecumenica, a cui concorre l’intero borgo, e in cui scenografie, testi, rappresentazione stessa non hanno una codificazione precisa, ma si sviluppano e dipanano in maniera viva. Nel cantamaggio, i prerequisiti essenziali sono sostanzialmente due: la rappresentazione teatrale vive sfondando i limiti del processo, e soprattutto si svolge nel tempo-che-ci-vuole per svolgersi.

Ecco: per immaginare i processi di fermentazione in una maniera nuova, eppure quantomai calzante, per questa metafora a sfondo teatrale c’era bisogno che affondassi nel cuore più brughiera della Tuscia, percorressi qualche chilometro di strade dissestate o sterrate, e finissi per stringere la mano a – e fare una lunga chiacchierata con – Carlo Nesler, pioniere e oggi maître-à-penser del cibo vivo.

Intendiamoci: la fermentazione è un processo che ci precede e che ci sopravviverà – anzi, che contribuiremo ad aver luogo. Produrre alimenti attraverso processi fermentativi s’è sempre fatto. Salumi, crauti, olive; s’è sempre fatto, e s’è fatto con una continuità disarmantemente semplice, che per certi versi abbiamo addirittura dimenticato che alcuni prodotti siano figli della fermentazione: il pane, insomma. Il vino, voglio dire.

Prima di Carlo, però, nessuno aveva fatto propria l’idea centrale di produrre cibi fermentati e non pastorizzati: cibo probiotico, non sterilizzato ma al contrario con ancora una carica microbiotica positiva al suo interno, cibo, insomma, vivo.

Nel laboratorio di Carlo, all’interno dei recipienti di gres riposa e fermenta il miso; nelle botti di legno legumi e cereali fermentano per un anno e mezzo prima di regalarci shoyu. Sugli scaffali barattoli all’interno dei quali la vita si sperimenta, frumento, legumi, cereali scatenano il miracolo della trasformazione in un loro altro.

«La scintilla», dice, «è scattata molto tempo fa, quando ero un ragazzino con la curiosità per i processi: come faceva il latte a diventare quella cosa con una consistenza e un’acidità diversa che chiamiamo yogurt?». Vedeva il cavolo cappuccio cambiare calore e sapore. Chiedeva a sua madre: eh, li lasci lì e succede. Carlo avrebbe dedicato, di lì in poi, la gran parte del suo tempo a capire cos’è che succede, quando quel qualcosa succede.

«Ho la fissa delle cose il più naturali possibili. Per me, per dire, l’ideale sarebbe raccogliere le erbe spontanee. Non coltivarle: raccoglierle proprio». Si sapis, sis apis, recita l’adagio latino: Carlo, saggio, come l’ape suggeva il nettare che lo interessava. Sfamava la curiosità. Studia teatro, al DAMS – di qui il riferimento al cantamaggio –, ma Agraria, all’Università, in qualche modo non lo convince. Sulla fermentazione «non c’erano corsi, non c’erano libri. Poi ho scoperto Sandor Katz, il suo libro, «la sua maniera di spiegarti in cosa consiste la fermentazione senza spiegazioni inutili, senza troppi tecnicismi»: dieci anni dopo l’uscita lo avrebbe tradotto lui, in Italia (edito Slow Food).

Quando si è messo a fermentare, era «l’unico a fare queste robe. Coltivavo soprattutto le verdure su cui lavoravo», con un’idea ben precisa di coltivazione, fondata sulla permacultura e sulla scuola di Fukuoka, sulla teoria del non fare, del naturale fluire delle cose. Oggi ha deciso di concentrarsi sulla produzione di insaporatori e salse come koji, miso, shoyu e shio koji, tutti a base di cereali e legumi. E la Tuscia, peraltro, è terra di elezione dei legumi, dalla lenticchia di Onano ai Ceci del Solco Dritto di Valentano ai Fagioli del Purgatorio. Ha seminato farro, monococco, segale, grano, cicerchie, sorgo, miglio e roveja, il pisello di campo.

Usiamo nomi giapponesi, per i prodotti della fermentazione, perché un nostro lessico codificato non ce l’abbiamo: anzi, forse è proprio intorno alle fermentazioni che abbiamo – da sempre – creato un sacco di confusione. «Alla fine non è che sappiamo con precisione neppure cosa fosse il garum: i romani avevano molti prodotti a base ittica, che avevano in comune alcuni punti. C’erano i salmendra, conservati di varia natura, e con gli scarti si producevano salse che qua si chiamavano liquamen, là garum, di là allec.». Alla fine, per definire appieno le salse che derivano dalla fermentazione di residui ittici non possiamo che andarci a pescare un referente asiatico, appunto, come la fish sauce.

Da un barattolo in cui fermentano lenticchie e frumento, Carlo mi fa assaggiare uno shoyu. Come la vogliamo chiamare? Come – efficacemente, peraltro – propone Carlo stesso: salsa di soia senza soia? Quel nettare è la quintessenza dell’umami.

«Da un punto di vista chimico l’umami non è altro che l’unione di molecole composte da amminoacidi e glucosio: gli amminoaicidi sono proteine già digerite, quindi facili da riutilizzare; il glucosio l’energia che ci serve per sopravvivere. Ovvio che il nostro organismo ne sia attratto: c’è tutto quello di cui abbiamo bisogno.».

Cosa ci affascina, della fermentazione? La stiamo riscoprendo come fosse qualcosa di nuovo, di esotico: magari è solo l’avanzamento di un processo culturale con il quale ci stiamo lasciando alle spalle la demonizzazione del microbo. Delle trasformazioni naturali, vive. «Da quando l’uomo se ne è andato dall’Eden, in cui tutto era a portata di mano, ha dovuto fare i conti con la conservazione e con le carenze: vai a nord e mancano le vitamine, certi cibi per essere mangiati devi semplicemente trasformarli. Prendi la tapioca: in natura è tossica. Ma l’uomo ha scoperto che se scavava una buca, metteva la radice in acqua e la lasciava lì per tre giorni, il processo di fermentazione annichiliva la tossina, la denaturava».

Tra i più entusiasti sostenitori del suo lavoro, chiaramente, c’è chi da sempre è orientato alla massimizzazione dei sapori, alla loro esaltazione: gli chef. «All’inizio del mio percorso mi ha contattato Norbert Niederkofler (tre-dico-tre stelle Michelin, NdA) e mi ha detto: “vieni da me una settimana, mi fai vedere ste cose”. Era molto scettico. Si è ricreduto».

Il problema, se vogliamo, è inverso: è che abbiamo cominciato a vedere le fermentazioni naturali come una moda, anche bizzarra. Il fatto è che non ha senso utilizzare la fermentazione come sensazionalismo: ha piuttosto molto senso utilizzarla nella sua funzione più semplice e originaria di propulsore di sapori. «È buffo da dire, ma credo che l’innovazione del mio lavoro sia nel fare quel che faccio senza farla troppo complicata. E puntando tutto sulla materia prima, anche originale: prima di me, nessuno per esempio aveva fermentato i porri, semplicemente perché non gli era mai venuto in mente. E avendo sempre a mente il concetto di non sprecare». Difficilissimo come tutte le cose che dovrebbero essere normalissime.

Oltre a salse e insaporitori liquide e solide, Carlo produce anche una serie di polveri. Apre dei barattolini: UmOri, sapore allo stato puro. E quella O maiuscola sembra fotografarne appieno la preziosità. «Quando a fine fermentazione pressiamo il monomi (il miscuglio di acqua, sale, cereali e legumi) nella tela, fuoriesce il liquido ma rimane la parte solida. In Cina e in Giappone la buttano. Io, quel moromi-kasu (che è il nome della massa rimanente), lo essicco e lo polverizzo. Ed è un insaporitore che non può essere paragonato a nient’altro». Con la fermentazione, l’acidità che deriva dal processo si fa acceleratore di aromi. E ne vien fuori un vero e proprio missile organolettico.

Il lavoro di Carlo, oltre che di produzione, è anche – soprattutto – di ricerca: ha sviluppato, per esempio, una serie di innovazioni tecniche che permettono oggi anche agli altri produttori di cibo vivo di lavorare prodotti stabili, che si conservano a lungo, anche a temperatura ambiente, che non producono puzze strane. «E quindi fermentare verdure che non ti aspetti di veder fermentate è la grande innovazione del XXI secolo: allucinante, se ci pensi, perché in realtà lo facciamo da sempre. Non c’è niente di straordinario: i microbi sono i nostri alleati più potenti, fanno quello che non riusciamo a fare noi».

Il concetto del non fare, di lasciare che sia la natura a far fluire il corso delle cose. Processi che richiedono rispetto della materia prima, ovvio, ma soprattutto di un ingrediente che sottovalutiamo: il tempo. Perché in niente come nei processi fermentativi risulta centrale un assioma: ci vuole il tempo che ci vuole. Solo così si può rimaner vivi. Il cibo, ovvio. Ma anche noi.

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