L'INCREDIBILE STORIA DELLA SAMBUCA

C’è stato un periodo in cui, da ragazzino, il mio principale talento è stato quello di saper riconoscere le erbe di campo. Ero una specie di wunderkid della cicoria, per esempio: che se ci pensi bene, a sette anni, distinguerla dalle altre erbe spontanee non è mica così facile. Mia madre si bullava con le amiche, mi presentava proprio così: il genietto della cicoria. Dev’essere stato in quello stesso periodo che ho imparato a distinguere il sambuco dall’ebbio, che infatti viene anche chiamato falso sambuco o sambuchella: entrambi cespugliosi, entrambi crescono lungo i corsi d’acqua – sembra che la parola sambuco derivi da un termine non indoeuropeo, forse egeo, forse semitico, saba, dal significato «che vive nell’acqua» –, vicino ai torrenti, nelle zone umide, ma uno è velenoso, l’altro no. Raccoglievamo grandi bustate di fiori di sambuco: mia madre ci preparava delle marmellate, a volte insieme alle fragole, e poi, diceva, le servivano per una misteriosa bevanda.

Civitavecchia, la città in cui vivo e scrivo è famosa per una minaccia, una promessa, un miracolo e una specialità. Ospita il porto crocieristico più movimentato d’Europa e una centrale a carbone, ed è l’ultimo avamposto che molti vedono prima di salpare per le spiagge della Gallura – e purtroppo anche il primo che scorgono al ritorno, così, per abituarsi all’ineluttabilità della routine del rientro dalle vacanze. Mark Twain, passandoci a metà 1800, l’ha definita «il più orribile covo di sporcizia, insetti, ignoranza in cui ci siamo imbattuti finora, eccezion fatta per la dannata Tangeri» (non so quanto si sia evoluta Tangeri, però), le Madonne sono solite piangere sangue e però è anche il posto in cui è nato uno dei liquori emblematici d’Italia, vale a dire la Sambuca.

Quando vedevo spuntar fuori la bottiglia di Manzi dalla credenza, ecco, io, a sette anni, pensavo che mia madre, coi fiori di sambuco, ci facesse quel liquore là.

Sambuca e sambuco sono molto di più che false friends: direi che siamo piuttosto di fronte a un caso di cannibalizzazione semantica. Il dubbio da dirimere subito, mi pare pacifico, infatti, è che la sambuca non è fatta con il sambuco. O meglio: non solo, e non principalmente. Cugina dei pastis, degli ouzo, dei raki, dei mistrà e delle anisette, la sambuca è infatti un distillato che ha tra i suoi protagonisti principali, indiscussi e inalienabili, l’anice. L’aspetto interessante è che nessuno, in fin dei conti, a parte l’anisetta, sembra voler rivendicare questa filiazione: il pastiss comoda la mescolanza, che lo renderebbe così torbido, l’ouzo l’odore – la componente olfattiva, in effetti, è la prima punchline di questo tipo di liquori. Cosa c’è di così scandaloso nella parola anice da renderla tabù?

Nella sua rotondità, certo, sambuco è più ammaliante. Sambuco e sambuca sono l’heimlich, il segreto e l’intimo, il segreto e il clandestino. Negli anni, a proposito di talenti, o di vocazioni, ho imparato a virare dalla riconoscimento delle erbe spontanee a quello delle radici etimologiche: non ci ho guadagnato in cucina, ma almeno so – e mi crogiuolo nel piacere di sapere – da dove vengono le parole, dove crescono, quali sono quelle velenose e quelle no.

Questo fatto che le bevande a base di anice si arrogassero i meriti del sambuco mi ha sobillato la necessità – o l’oziosa occupazione, scegliete voi – di risalire sui filari della storia per capire dove fosse andata in scena la commedia degli equivoci: il punto d’arrivo, e quindi di partenza, è stata la Sicilia del 1600. In Sicilia i semi di anice sono giunti a bordo delle navi dei greci; i fiori e i semi di sambuco, invece, di quelle arabe. Entrambi sono stati utilizzati da subito per disinfettare i depositi d’acqua, per depurarli, e qualcuno deve essersi accorto che il sentore conferito all’acqua era massimamente dissetante.

Ora: gli arabi chiamavano il sambuco zammut. Ma attenzione, perché è qua che arriva il coup de théâtre: l’anice lo chiamavano yansun. Per assimilazione fonetica, oltre che per vicinanza organolettica, insomma, sambuco e anice sono diventati quasi la stessa cosa, interscambiabili, l’uno vale l’altro.

Lo zammù, in Sicilia, è diventata subito una bevanda hipster, però trasversale, che bevevano tanto gli operai durante i lunghi turni notturni quanto i notabili in piazza quando andava in scena un autodafé. Le città si sono riempite di acquavitari, artisti della mixology ante-litteram che facevano confluire nel bicchiere, agitando con maestria i loro orci, acqua e distillati d’anice: l’effetto louche, torbido, che scaturiva dalla miscelazione – che formava nuvolette lattiginose – era la magia tascabile che arrivava prima dell’effetto dissetante.

A uno di questi acquavitari che aveva una bottega a Civitavecchia, a metà 1800, è venuto in mente di mettersi a produrre un distillato di anice tutto suo. Come posso chiamarlo, però, si chiedeva. Ha ripensato alle sue terre, Ischia, dove gli acquavitari li chiamano Sambuchelli, e non ha avuto dubbi: è così che è nata la Sambuca Manzi. Poi sarebbe arrivato il tempo della Molinari, ma quella è un’altra storia. È stata di Manzi l’intuizione di riportare un po’ tutto a casa, e chiudere il cerchio aperto due secoli prima da un misunderstanding linguistico, aggiungendo in infusione anche i fiori di sambuco.

Che mia madre non avesse degli alambicchi da distillazione nascosti da qualche parte in casa, che non fosse una moonshiner, purtroppo, lo avrei scoperto solo anni dopo, il giorno in cui – dopo l’ennesimo carico di fiori di sambuco – mi sono spinto a chiederle cosa fosse quella storia della bevanda. Ci faceva lo champagne. Così mi ha detto.

In un grosso barattolo metteva acqua, limoni a fette e spremuti, zucchero e aceto di mele. Poi piazzava il barattolone al sole, l’importante era che ci fosse luce e calore, lo copriva e lo lasciava riposare per due giorni interi. Dopodiché filtrava il contenuto e lo inseriva in delle bottiglie da spumante, di quelli con il tappo e la gabbietta, lasciando quattro dita d’aria all’interno, e le tappava.

Ho scoperto che da qualche parte lo chiamano lo spumante dei poveri. Per me, ogni volta che saltava il tappo, con uno schiocco fragoroso, quello che stavamo per bere – altro che poveri – era champagne, della miglior fattura; e ogni brindisi una celebrazione del miracolo per cui le cose, a volte, spesso, non sono quel che crediamo essere.

2024-05-10T16:21:51Z dg43tfdfdgfd